I VENNIRI RI MARZU    di Gaetano Belverde


Introduzione

Nella società` contadina Buscemese dell`ottocento, si individuano delle singolari ed endemiche manifestazioni religiose svolte nel mese di Marzo, l`analisi dei contenuti e dei significati di tali celebrazioni ci riporta agli anziani umori veleggianti tra i paesani, oltre a svelare la condizione economico-sociale dell' intera comunita'.
Il quadro generale che emerge dall`analisi di queste celebrazioni religiose, e` relativo alle vicende di inizio secolo, in quanto frutto di etnofonti, ma secondo le memorie tramandate dai padri ricalca gesta e verita` molto piu` antiche. Le celebrazioni dei "Venniri i Marzu" si protrassero fino a tempi recenti con radici in un passato che si perde tra i secoli.
In nessun altra occasione durante l`anno la matrice socio-culturale appare cosi` chiara e fotografica.
Alle quattro distinte categorie di ispirazione chiaramente medioevale, quali: CAVALLACCI MASTRI MASSARI ZAPPUNARI  appartenevano tutti i civitoti vestendo i costumi dei protagonisti in Marzo.


Capitoli



 

Le manifestazioni religiose dei "Venniri ri Marzu", consistevano in delle semplici funzioni religiose svolte a turno dalle quattro categorie primacitate per gli altrettanti venerdi del mese di Marzo.
L`aspetto organizzativo di massima delle celebrazioni era ricalcato da tutte le compagini.
La chiesa Madre era la sede fissa delle celebrazioni, questa, veniva fastosamente addobbata con i paramenti piu' belli ed illuminata a giorno da una miriade di candele appese all`interno con delle cordicelle ed ancora dagli stopppini tenuti manualmente dai fedeli.
Le rispettive commissioni si occupavano della questua (molto spesso sotto forma di prodotti locali), dell`acquisto delle candele e stoppini (stipate e misurate in "casci ra cira"), della commissione dei fuochi artificiali e comunque di tutto l`aspetto economico organizzativo.
Alle commissioni si accedeva generalmente per acclamazione, non erano in ogni caso bene accetti i personaggi di dubbia provenienza classistica o gli scalatori sociali.
Alla funzione liturgica serale partecipavano tutti i componenti della categoria in festa, sfoderando gli abiti e gli addobbi migliori.
L`inizio ufficiale delle celebrazioni con l`entrata del sacerdote nell`edificio ecclesiale, veniva sottolineata dall`accenzione dei "mecci" (gli stoppini).
Nel percorso dalla sacrestia al sagrato, il sacerdote veniva accompagnato solennemente da un giovane ragazzo con il caratteristico baldacchino, questa figura di grande prestigio era ambita dai giovani ragazzi in quanto investiti dall'onore di rappresentare la categoria per l`occasione.
Malgrado le modalita` di svolgimento della funzione religiosa fossero identiche per tutti e quattro le compagini, si insinuava nelle categorie piu` umili un forte spirito di competizione, i "Venniri ri Marzu" rappresentavano di fatto l`unica forma di riscatto nei confronti di categorie piu` ricche e potenti.
Prova quanto detto il fatto che le funzioni dei "zappunari" fossero generalmente i piu` ricchi di partecipazione e di "cira".
I CAVALLACCI  partecipavano con poca passione alle celebrazioni e comunque non si sognavano minimamente di entrare in competizione con categorie minori.
L`addobbo della chiesa impersonava lòggetto della competizione, la maggior parte delle offerte raccolte dalle commissioni veniva destinata, anno dopo anno, per rinnovare i "casci ra cira".
Il Venerdi seguente ai quattro gia` citati e precedente il Venerdi` Santo, veniva intitolato all`Addolorata (Venniri R`Addulurata), in questa occasione, l`intera popolazione si riuniva anche per i preparativi della funzione e si avviava in preghiera verso la settimana santa.
Il fatto che le funzioni religiose si svolgessero di Venerdi` e in piena Quaresima, dimostra che l`ispirazione alla preghiera fosse collegata alle imminenti celebrazioni Pasquali.
La scarsa spettacolarita` e teatralita` delle manifestazioni, associata alla totale assenza idolatrica, mette a fuoco la vera e profonda religiosita` del popolo Buscemese.
L`incalzante progresso tecnologico legato all'industralizzazione avvenuto gia` dai primi decenni del secolo diede vita a nuove professioni poste al di fuori degli schemi classici.
Essendo attratti da i nuovi stili di vita ed esasperati da un profondo bisogno, gran parte dei proletari Buscemesi ando` a cercare fortuna nelle grandi citta` industrializzate.
Le industrie assorbirono gran parte della forza lavoro giovanile costituendo di fatto una frattura insanabile nella naturale trasmissione della cultura popolare, cosi` che oggetti termini e pratiche rimasero stagnanti solo nelle memorie di pochi anziani.
Le nuove culture di adozione fomentarono confusione e contribuirono all'indifferentizzazione delle manifestazioni stesse.
Dal dopoguerra in poi si registro`  un declino di interesse nei confronti dei "Venniri ri Marzu", dapprima con il ritiro dalle celebrazioni dei Cavallacci, poi con il definitivo abbandono di tutte le categorie.
Nel periodo di transizione, il Venerdi` rimasto libero venne affidato alle donne da cui prese il nome (Venniri re Fimmini), l`ultima celebrazione avvenne nel XXXXXX.
Le varie categorie protagoniste dei "Venniri i Marzu" vengono piu` esaurientemente  illustrate cercando di chiarire il carattere la natura il compito che ogni classe sociale ricopriva nella vita quotidiana. La descrizione viene fatta rispettando l`ordine con cui avvenivano le manifestazioni durante il mese di Marzo, e che probabilmente rispecchiava il peso della categoria stessa..


Cavallacci

La categoria dei cavallacci era costituita da una media borghesia di proprietari terrieri e gente di cultura, ad essi appartenevano: Insegnanti, medici, notai,agiati commercianti, latifondisti in genere.
Non si conoscono le motivazioni e i significati di questa definizione tuttavia e` certo che i Cavallacci rappresentavano l`unico polo di cultura sociale.
 Le sorti dell`intera economia del centro erano caratterizzate dagli interessi di queste famiglie.
La maggioranza delle terre coltivabili,le infrastrutture quali Palmenti, Frantoi, masserie, appartenevano da generazioni ai Cavallacci.
Molti tra i Cavallacci vivevano esclusivamente di rendita, altri pur esercitando professioni incongruenti con l'agricoltura, consci della natura economica del centro, investivano le proprie ricchezze sulla terra.
La gestione delle proprieta` veniva esercitata molto raramente da Cavallacci, piu` spesso veniva demandata a dei fidati gestori, anche sotto forma di affitto.
La figura dell`affittuario chiamato "gabilluotu" o del gestore era spesso rappresentata dal "massaru".
L'affidamento della terra al "gabilluotu" avveniva in diverse forme:
A) terra affittata a termine (fino a 29 anni, limite massimo dopo il quale la terra passava di proprieta` all'affittuario), la gabella si decideva di caso in caso e rappresentava comunque un grosso onere per il "gabilluotu".
B) terra affittata per due o tre anni (o in alcuni casi annualmente) durante i quali si spartiva il raccolto generalmente tre parti al proprietario e una per il "gabilluoto" piu` la "simenta a perdiri". Nel primo caso la gabella decisa prima dell'affitto non era legata alla quantita` del raccolto, nel secondo caso invece, questa ne dipendeva strettamente.
In altri casi la terra veniva affidata al "massaro" che lavorando annualmente alle dipendenze del "cavallaccio" si preoccupava di organizzare l`intera attivita` lavorativa dei campi.
I grandi proprietari assoldavano anche piu` "massari" per gestire le loro tenute.
Alcuni tra i "Cavallacci" gestivano autonomamente la proprieta`, essi creavano spesso delle grandi masserie.
L`organizzazione giornaliera dei lavori era comunque affidata a del personale specializzato, che si occupava dei vari settori della masseria.
La pastorizia, la vignicoltura, il seminato, ad ognuno la propria competenza raggiungendo magistrali livelli di competenza  e rappresentando un significativo esempio di organizzazione agricola.
Le masserie rappresentavano un occupazione per molti giovani garzoni,  e per molti capi famiglia impiegati a seconda delle necessita` come "iurnatari" "misaluori" o "iannaluori" in funzione del periodo di ingaggio.
Era consuetudine trovare nelle case dei "cavallacci" a "criata", figura rappresentata da una giovanissima domestica a tempo pieno, remunerata con pochi spiccioli vitto e alloggio.
La classe studentesca Buscemese era rappresentata quasi totalmente dai giovani cavallacci.
La maggioranza dei ragazzi non riusciva a completare neanche gli studi elementari, e  a causa dell'estremo bisognoi venivano avviati al lavoro giovanissimi.
Nell'ambito paesano i Cavallacci erano noti anche come "i Nobili", questi ultimi accettavano volentieri il titolo, (solo verbale) malgrado la Nobilta` a Buscemi fosse scomparsa da tempo.
Tutti i palazzi ottocenteschi di Buscemi furono edificati dalle ricche famiglie di cavallacci.


Mastri

La categoria dei "mastri" rappresenta nell`ideale scala gerarchica emersa dall`analisi dei "Venniri di Marzo", quello che attraverso i canoni comuni di una societa` tipicamente medioevale era rappresentato dal polo artistico, opportunamente ridimensionato e adattato alla modesta struttura economico-sociale del centro.
Tutti gli artigiani quali: Falegnami, muratori, calzolai, fabbri, sarti, barbieri,intagliatori, scalpellini, facevano parte dei "Mastri".
Il sapere dell`artigiano frutto di anni di attivita`, veniva generalmente tramandato da generazione in generazione.
L`artigiano svolgeva il proprio operato nella "putia", che oltre alla sede dell`attivita` lavorativa costituiva di fatto un importante centro di incontro per i clienti. I prolungati orari di lavoro dell`artigiano permettevano le riunioniserali delle genti dopo il lavoro, o in caso di maltempo.
La "putia" garantiva concretamente la sopravvivenza al "mastro" e alla sua famiglia, lo distingueva dagli altri, dandogli una precisa collocazione sia urbana che sociale, rappresentava insomma un focolare accogliente e garante di benessere, la consapevolezza di questa realta` giustificava l`estremo rispetto che si veniva a creare nei confronti del luogo di lavoro.
Divenire artigiano e mettere su` una "putia" era un`ambizione che spesso ricorreva tra i giovani Buscemesi. Imparare un mestiere implicava l`abbandono di tutte le altre attivita` per dedicarsi integralmente all`apprendistato presso l`artigiano.
La maggioranza delle famiglie non poteva permettersi di rinunciare all`aiuto del figlio per il lavoro nei campi e ancor piu` di mantenerlo all`apprendistato. Per ultimo, e problema molto importante rimaneva comunque l`allestimento della "putia".
Era percio` per le famiglie meno ricche, motivo di grande orgoglio riuscire a dare un mestiere e una putia al proprio figlio.
Nell`ambito sociale la distinta professione dell`artigiano era vista di buon occhio ed era quasi sempre sinonimo di benessere.
Importante era l`attivita` del fabbro ferraio che, oltre a forgiare gli strumenti di lavoro dei contadini e i vari manufatti in ferro, fungeva da maniscalco e anche da esperto veterinario per gli animali da lavoro.
Il mestiere del falegname era abbastanza diffuso, questi oltre alla fabbricazione di infissi per le abitazioni si adattava al mercato costruendo "maiddi", "sbrie", torchi per i palmenti e i frantoi, botti e tini, telai e accessori per i lavori domestici, mobili "casce". L`attivita` del calzolaio, veniva solitamente professata da quelle persone che per particolari deficenze fisiche non potevano sostenere altre professioni piu` faticose.
Diverse opere testimoniano infine l`attivita` di una schiera di scalpellini operanti nel paese, numerosi portali, opere cimiteriali e decorazioni, sono ancora visibili, come ad esempio i due leoni che controllano maestosi l`ingresso ai lati del cancello della chiesa di S.S. Sebastiano, questi, mostrano una fattura eccellente, molto realistica e ricca di particolari, XXXXXXXX li scolpi` su blocchi di pietra calcarea nel XXXX. Come si puo` notare dagli esempi citati, l`artigiano svolgeva un`attivita` piuttosto elastica che comprendeva varie funzioni con competenze spesso al limite dell`attivita` stessa.
Per cui nella bottega del barbiere si poteva assistere di tanto in tanto anche l`estrazione di un dente, o anche a qualche piccolo intervento chirurgico alle unghia e peli incarnti.
A causa del ristretto mercato paesano altre attivita` artigianali pur essendo molto specialistiche non riuscivano garantire la sussistenza economica per l`artigiano stesso. A Buscemi, l'attivita` del cestaio ad esempio, molto raramente rappresentava una prima professione, di contro, quasi tutti i contadini provvedevano a soddisfare le proprie necessita` fabricando autonomamente "Curbeddi", "Panara", "Cannisci", "Cannizzi" ed altri manufatti ancora.
Ll`intreccio di questi manufatti avveniva in genere nei giorni di maltempo invernali nei quali si era costretti a rimanere in casa.
Queste attivita` di ripiego non venivano per altro annoverate tra le fila dei "mastri". L`arte dell`arrangiarsi era comunque praticata costantemente e si ricorreva alla mano d`opera specializzata solo in casi di effettivo bisogno.
Neanche l`artigano sfuggiva all`influsso dell`economia agricola e solitamente anche questo possedeva almeno un piccolo orto che coltivava nei ritagli di tempo per soddisfare i bisogni familiari "pi` usu casa".
Anche questo rappresentava una importante garanzia.


Massari

Nella caleidoscopica tipologia dei "massari", confluivano molteplici attivita`, che vitalizzavano linfaticamente l`aspetto commerciale e imprenditoriale della societa` Buscemese.
La categoria dei "Massari" comprendeva: Gli allevatori di bestiame, commercianti di ogni genere, e coloro che conducendo dei poderi presiedevano i lavori e la cura del bestiame, sia per conto proprio o sotto le dipendenze dei proprietari latifondisti (Cavallacci).
L`opera del commerciante permetteva sia lo smercio dei prodotti locali nei vicini mercati (molto battuta la piazza di Catania), che l`approvigionamento di materie prime del centro.
Le noci, olive, noccioline, carrube, mosto, vino rappresentavano alcune delle potenziali mercanzie.
Il commerciante era generalmente anche carrettiere, e tutti i prodotti locali destinati al mercato, passavano dai suoi carretti.
Su molti prodotti, prima della vendita, si effettuavano delle lavorazioni e trasformazioni. Dalle Carrube si ottenevano delle squisite caramelle, o dal "Nuozzulu" residuo dalla spremitura delle olive si estraeva l`olio di sansa che in un successivo passagio veniva trasformato in sapone.
Le mandorle venivano sgusciate dalle vocianti "chiurme" di fimmini nei "funnichi" dei commercianti, dai gusci si otteneva in seguito "u nuzzuliddu" per le conche (Data la mole di lavoro, la sgusciatura delle mandorle veniva demandata anche part-time). Oltre alla lavorazione, Il commerciante si impegnava anche nella raccolta dei frutti, che potevano provenire dalla propria o altrui produzione.
Per tutti i lavori necessari si attingeva comunque alla mano d`opera locale. Essendo i commercianti assidui frequentatori di mercati e fiere svolgevano spesso anche ruoli di sansalia.
L`aspetto gestionale dei poderi era curato dal "Massaro", che oltre alla conduzione delle terre proprie si addentrava spesso in rapporti di mezzadria con i grossi proprietari terrieri (quali i Cavallacci).
I poderi condotti dal massaro, erano, il piu` delle volte corredati da infrastrutture per la trasformazione dei prodotti coltivati. Palmenti, Frantoi, Molini erano consueti nelle grandi masserie oltre a imponenti strutture di recinzione e riparo per gli armenti.

 

[frantoio]
Trappitu
 

I Palmenti e i frantoi terminata la "messa" propria venivano locati ai piccoli "partitari" che provvedevano al raccolto.
Allo scopo di facilitare la fruizione dei clienti parecchi palmenti e frantoi venivano impiantati nel centro urbano.
Essi costituivano delle vere e proprie industrie di trasformazione dei prodotti, e come tali impiegavano una gran quantita` di persone.
 

 

[Palmento]
Parmientu
 

La mola, composta da due grosse ruote di pietra (suprana e suttana), e il Torchio (dapprima in legno poi in ferro), rappresentavano le due importanti macchine "dell`industria". Due figure altrettanto importanti ne gestivano con l`aiuto di uomini ed animali, l`attivita` lavorativa.
Il "MASTRU RI PALA" controllava la mola, comandava direttamente il mulo impiegato per la trazione e alcuni garzoni impiegati per la mescita delle olive sulla fonte, per il  trasporto della polpa risultante dalla molitura attraverso le coffe al "MASTRU RI CUONZU".
Questo sistemava con perizia le "coffe" sotto il torchio incolonnate una sull`altra, e cadenzava gli sforzi dei quattro uomini sulla "sdanca" , questi, girando alternativamente le "scufina" trasformavano la loro fatica in pressione.
Per ultimo raccoglieva l`olio decantato sul fosso con il caratteristico "piattuzzu". La stessa quantita` di oliva veniva molata e pressata in ciclo per tre volte, al fine di ottenere una resa piu` alta.
 

 

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tipica cucina di masseria
 

Unitamente alle infrastrutture gia` citate,le masserie consistevano anche di strutture abitative per il ricovero del "massaro".
Il massaro possedeva anche un`ampia casa nel centro urbano, abituale residenza dell`intera famiglia.
La casa in paese constava diversi ambienti:
La stanza del telaio e degli attrezzi per filare e tessere le tele (attivita` in cui si dedicavano maglie e figlie), il "Maiazze`" dove venivano stipate le conserve, la stanza del forno e lacucina, le stanze da letto e le stalle.
L`ampiezza e la sinuosa struttura di queste abitazioni testimonia la rosea condizione economica che gravitava intorno alla masseria.
Nei casi in cui il podere, sede dell`attivita` masserizia era molto distante dal centro urbano, o in taluni casi particolari, il massaro risiedeva sul luogo con l`intera famiglia. Per fare fronte ai lavori stagionali del podere i "massari" selezionavano personalmente i lavoratori e formavano "i chiurmi".
Per la normale attivita` di routine della masseria venivano impiegati anche dei garzoni, dei giovani ragazzi "adduvati".
Sia nel caso dei commercianti che nel caso dei mezzadri, la categoria dei "massari" rappresentava di fatto, una interfaccia tra i propietari latifondisti quali i cavallaci e gli umili lavoratori quali i "zappunari".


Zappunari

La categoria proletaria dei "zappunari", costituiva l`ultimo ed importante scalino della scala gerarchica.
Di animo semplice ed umile, totalmente incolti, ma forti di una intrinseca saggezza tramessa nei secoli, i zappunari si cimentavano con orgoglio e forza di volonta` in lavori che sconfinavano spesso il limite dell`umana sopportazione, svolgevano materialmete la maggior parte dei lavori manuali, i braccianti venivano definiti "Iurnatari", "misaluori", "iannaluori", in funzione della durata del periodo di ingaggio. Iil bracciante che andava a lavorare nelle chiurme organizzate dal massaro, aveva diritto al pasto e alla paga.
Il pasto di mezzogiorno era costituito da pane olive oltre all`immancabile vino che ofuscando la stanchezza migliorava la resa.
La sera si preparava la classica "pasta co maccu", nell`interesse dei zappunari stessi le fave della pasta potevano essere facoltivamente "pizzicate", in tal caso questi, dopo un duro giorno di lavoro mettetosi in fila sull`uscio della cucina svolgevano quest`arduo compito, la pena? avere delle fave simil pietra.
La famiglia generalmente molto numerosa, viveva in piccolissime abitazioni monovano spesso condivise con gli animali da lavoro (Asino,galline).
La casa consisteva in un piccolissimo monolocale di non piu` di trenta metri quadrati. L`asino ,non sempre presente, ma solo per motivi economici, veniva tenuto sull`uscio della porta.
 

 

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ricovero contadino di inizio secolo
 

Di interessante e singolare natura e` il rapporto simbiotico che scaturiva tra uomo e animale. L`attivita` lavorativa e quindi il sostentamento proprio e dell`intera famiglia era possibile solo con l`ausilio dell`asino, questa stretta dipendenza si sacralizzava in un rapporto di apprenzione nei confronti della bestia.
Schiacciati dalla consapevolezza dell`indispensabilita` dell`asino, il contadino si sacrificava personalmente in duri lavori pur di evitare la bestia.
Raramente famiglie di braccianti riuscivano a sopravvivere senza l`ausilio della "viestia".

 
 

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lavoro nell'aia
 
 

Per sfruttare al massimo la capienza della casa si faceva il "sularieddu" dividendo la casa in due piani. Nell spazio sotto il sularo chiamato appunto "arcova", veniva sistemato ad angolo il letto matrimoniale, sotto il letto o sotto la "tannura" venivano alloggiate le galline per la notte. In ogni palmo di casa rimasto libero venivano approntati i letti per i figli maschi. Nel sularo si conservavano cari gli attrezzi da lavoro e le figlie femmeine, la scala di accesso veniva tolta durante la notte  a scoraggiare la classica fuitina o comunque ogni intrusione estranea nell`harem.
A titolo di curiosita` si noti che la moglie veniva fatta alloggiare nella parte ad angolo del letto, probabilmente in segno di protezione, meno verosimilmente per questioni di fedelta`.
 Dopo anni di lavoro, i pochissimi risparmi venivano investiti in fazzoletti di terra che, per caratteristiche ed ubicazione, risultavano abbordabili economicamente ma scarsamente redditizie.
In questo caso l`intera famiglia si muoveva unita, e dalla semina al raccolto, mentre il capofamigglia si impiegava nelle masserie o negli aranceti del Francofontese o ancor prima nella fertile piana di Catania, Moglie e figli si occupavano dei fazzoletti di terra propria e della cura delle galline, della capra dei conigli, qual`ora si aveva la fortuna di possederli.
Sia le uova che il latte o la carne ottenuti da questi animali, venivano venduti o barattati giornalmente con beni di prima necessita`.
Ciascun elemento della famiglia contribuiva attivamente all`economia comune, ma un ruolo di rilievo in questo senso era ricoperto dalla moglie.
Durante il giorno questa si occupava dei lavori nei campi, mentre al tramonto tornava ad occuparsi delle faccende domestiche, e dopo cena, alla luce della lumera preparava la dote per la figlia femmina.
Le famiglie di "zappunari" erano generalmente composte dai genitori e da 4-5 figli.
I figli maschi rappresentavano forti braccia a sostegno della famiglia, di contro le figlie femmine andavano a rappresentare forti spese sopratttutto per la costituzione della dote, considerata indispensabile.
Lo sforzo economico che la dote implementava sulle spalle della famiglia, e` testimoniato dal lungo periodo di preparazione che iniziava sin dalla nascita, "A figghia na` fascia e a doti na` cascia".
Nei rari casi in cui  il capofamiglia non riusciva a garantire il sostentamento alla prole, si ricorreva a dei veri e propri contratti di affitto.
Le ragazze, divenivano "criate" e svolgevano generalmente mansioni di domestica a tempo pieno presso le famiglie piu` ricche, i ragazzi "adduvati" presso le masserie svolgevano mansioni di garzone.
Il periodo di lavoro del ragazzo veniva concordato a priori e poteva durare sino alla maggiore eta` del giovane, ma in ogni caso si interrompeva istantaneamente in caso di matrimonio di quest`ultimo.
Questa pratica si protrasse sino agli inizi del secolo.


Curiosità

Anche nei rapporti verbali tra i componenti delle diverse categorie si celava un`ispirazione classistica, alcune abbreviazioni, come pretesa consuetudine, precedevano il nome della persona in parola e ne definivano sommariamente il ceto sociale. Di seguito si citano i "prenomi" utilizzati per le diverse categorie e in funzione del sesso.

DON o DONNA per i Cavallacci
MASTRU o GNA per i Mastri
MASSARU o MASSARA per i Massari
ZU` o ZA` per i Zappunari

Il titolo di "Don", spettava anche a colui che riuscendo a mantenere il figlio agli studi lo "arriniscia". Si tenga presente che parallelamente ai Venerdi` di Marzo, anche la pratica dei prenomi ando` ad in`usualizzarsi, ed a perdere di significato. Gia` dagli inizi del secolo i "mastri" venivano chiamati "Don".



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